Era il 5 luglio, il giorno del mio compleanno. Scendevo i gradini della chiesa, quando lessi sullo smartphone la notizia: un tweet di Polly Samson, moglie di David Gilmour, annunciava un nuovo disco dei Pink Floyd. Ricordo bene la sensazione di gioia, terrore, incredulità, i suoni del mondo circostante ovattati, mentre la mia mente cercava di focalizzare il fatto.
Per me i Pink Floyd non sono una band come un’altra, sono un qualcosa di personale, una esperienza interiore intensa che era stata sigillata dalle ultime lancinanti note della slide di Gilmour in High Hopes, l’ultimo brano del loro ultimo disco. E ora usciva fuori questa cosa, questa specie di raccolta di brani risalenti alle session di The Division Bell a disturbare il mio immaginario, la mia abitudine, la mia sedentarietà emotiva? Molto difficile da accettare!
Ovviamente dal momento dell’uscita del disco, la mia collezione pinkfloydiana è rimasta incompleta per massimo 5 ore, condite dall’ansia di possedere la mia copia di “The endless river”. Tutte le ansie dovute alla presenza di questo nuovo arrivato hanno avuto il culmine negli ultimi attimi che hanno preceduto il momento in cui il mio indice ha premuta il tasto “play” dello stereo. Sarà all’altezza del nome che porta? Sarà un orribile puzzle di robaccia senza valore artistico? Sarà solo una trovata commerciale?
Cosa sia successo dopo non saprei definirlo, ma tentando di dare un’idea, mi sono sentito come avvolto in una coperta di suoni, avviluppato a idee ritmiche e melodiche che traevano forza dalla loro compiuta incompiutezza! Puro suono! Forse le parole giuste sono queste: puro suono!
Non avere necessariamente obblighi melodici vocali sembra quasi aver sbloccato l’inventiva e la capacità dei Pink Floyd di creare strati di suoni immaginifici, che riportano a tutte le epoche della loro storia, con una menzione particolare per l’intervento dell’organo a canne della Royal Albert Hall suonato da Wright. Pare inspiegabile, ma i Pink Floyd ancora una volta riescono a entrare nella mia intimità, e lo fanno con un disco facile da etichettare come “ruffiano” dai detrattori dotati di uno snobismo musicale spesso fuori luogo, ma che in realtà è probabilmente la loro uscita più coraggiosa dalla dipartita di Roger Waters. Questo disco riesce a toccare corde nascoste, e le parole di Louder than words risuonano come una dichiarazione definitiva che crea un senso di appartenenza. Ben tornati ragazzi, addio!
Louder than words
this thing they call soul
it’s there with a pulse