"Che cos'è il genio? È fantasia, intuizione, colpo d'occhio e velocità d'esecuzione", così recitava Philippe Noiret nei panni del Perozzi nel famosissimo film "Amici Miei" di Monicelli. Una frase simile non può non tornare in mente ai piedi di un gigante della stoffa di Jeff Beck, soprattutto sulla base di quello che è accaduto domenica 24 giugno 2018 al settantaquattrenne chitarrista inglese (era anche il suo compleanno, tanti auguri, davvero!).
Siamo nel teatro romano di Ostia Antica, Beck deve tenere un concerto in una location così suggestiva, intima e piena zeppa di fan pronti a restare paralizzati sotto ogni saetta proveniente dalla Fender bianca che lo contraddistingue. Tuttavia, dopo oltre un’ora e mezza da quando sarebbe dovuto iniziare il concerto, di Beck non si vede nemmeno l’ombra. Il pubblico è caldo, c’è un bell’ambiente, la musica giusta e l’attesa per una leggenda di dimensioni inusitate, ma poi arriva la notizia: l’artista aveva avuto un malore.
Dopo un po’, quando ormai ci si rassegnava all’idea di uno spettacolo annullato con conseguente preoccupazione per le sue condizioni di salute, si spengono le luci, lui sale sul palco con tutta la band, mentre il pubblico gli perdona il comprensibile ritardo cantando “tanti auguri a te”. Jeff è palesemente imbarazzato e non sembra stare bene, barcolla, gli tremano le gambe, ma comincia a suonare, e in quel momento si assiste a qualcosa di mai visto. Quel guitar hero reso vulnerabile da qualche malore attacca a suonare distruggendo ogni dubbio sulla sua possibile capacità di tenersi in piedi, pur continuando a perdere sangue dal naso. I primi minuti del concerto sono drammatici ma anche epici. Jeff si ingegna in tutti i modi per fermare l’emorragia, o meglio, per evitare di rendere la tastiera della stratocaster inutilizzabile. Prima con le mani, poi tenta un tampone, un foulard, ma poi “la fantasia, l’intuizione, la velocità di esecuzione”: Jeff mette un fazzoletto in bocca e lo usa per raccogliere il sangue che gronda dal naso, e così fa per buona metà del concerto in cui, pur avendo perdite costanti, non smette mai di suonare. È quasi inverosimile quello a cui si assiste, suona con una mano sola quando serve, poi se la ride, si asciuga la bocca, ma continua a picchiare forte su quella chitarra insanguinata, uno spettacolo che in un teatro romano ricorda quello di un gladiatore invincibile.
Quello che a un comune essere umano risulterebbe impossibile, per lui è assolutamente naturale. Jeff Beck è propriamente un genio, perché è in grado di pensare in modo trasversale e il concerto di ieri ne è la conferma. Si tratta di uno di quegli artisti che dall’ascolto dei dischi risulta uno dei grandi, ma dal vivo diventa il più grande tra i grandi.
Beck usa la chitarra come nessun’altro fa, pizzica le corde con le dita della mano destra in modo del tutto personale, sfrutta i rumori, le armoniche, le meccaniche della chitarra elettrica e le rende musica. Non si ferma neanche di fronte a problemi di salute perché ha il totale controllo della situazione, perché sa organizzare l’esibizione come più gli è congeniale, quindi trova una soluzione e ci dà dentro. Ma non è l’incidente di percorso a rendere il concerto unico, semmai il modo in cui ha bypassato il problema conferma e aiuta a capire come Jeff Beck costruisca la sua musica: non sempre la soluzione più facile gli è congeniale, cerca la strada da sé. In effetti la strada lui si che se l’è tracciata da solo.
"Pull It" è una non canzone che trae la forza dallo sfregamento delle corde della Stratocaster e l’uso del ponte, cosa che non si vedrebbe fare a nessuno, neanche a uno shredder moderno pieno di effetti. A tal proposito, Jeff Beck usa certamente l’effettistica, ma ad ascoltare bene il suo suono tutto si riduce a due o tre pedali e al gioco di dinamiche con il volume della chitarra. Quindi suona e, con la sua consueta spavalderia, ti dà un pugno in faccia quando esegue "Stratus" - suonata con una mano sola praticamente - mentre in "Nadia" ti dice che lo slide non si usa solo in open G.
È senza dubbio un egocentrico, ma non può non attirare l’attenzione al punto da occultare una band dal potenziale strepitoso, ma che appare comunque “normale” rispetto a lui, con una Rhonda Smith esplosiva al basso (al posto dell’eccezionale Tal Wilkenfeld), uno straordinario Vinne Colaiuta alla batteria, acclamatissimo dal pubblico, e l’aggiunta del violoncello (decisamente azzeccata) di Vanessa Freebairn-Smith. Alla voce c’è Jimmy Hall, sicuramente un ottimo cantante che riesce a non far rimpiangere gente come Rod Steward ("Morning Dew") o Stevie Wonder ("Superstition", da infarto) o Beth Hart ("Going Down", a quel punto vuoi vendere la chitarra). Tuttavia, la voce umana non è sempre necessaria in un concerto simile. Quando Jeff Beck sale in cattedra riesce a tirare fuori dalla chitarra quello che neanche un cantante può. È il caso di "A Day in The Life" dei Beatles ma soprattutto la sua "Cause We Ended as Lovers", una poesia senza nemmeno una parola.
Ma non vuole giocare solo in casa, riesce a rendere propri dei classiconi come "Little Wing" o "A Change Is Gonna Come" (maestosa), confermando la capacità di rielaborare anche la musica altrui e farlo secondo la propria personale visione.
Parlare dei singoli pezzi sarebbe riduttivo, non si tratta di un concerto di hit da cantare tutti in coro o del solo di chitarra famoso da replicare serialmente. Siamo di fronte a un colosso che lascia paralizzati in più punti, con un suono enorme, un timing perfetto, non c’è nulla che sia sbagliato nelle sue entrate sul pezzo. A volte sembra anche essere un eccesso di bravura, potenza, tecnica, emozione e raffinatezza.
A concerto finito resta l’amaro in bocca di aver avuto torto, e credo che sia questa la sensazione che un artista come Jeff Beck lascia in molti, quella di essersi sbagliati nel concepire l’idea di chitarra elettrica, da lui totalmente superata e ribaltata. Forse per questo risulta difficile da categorizzare, soprattutto alle orecchie di un certo pubblico più pop, ma quello che resta dopo un concerto simile è l’immagine iconica ed il suono irripetibile di un guerriero che se ne frega di tutto e tutti e in effetti, a pensarci bene, quando fa la sua consueta pernacchia al pubblico forse vuole beffarsi di chi si prende sul serio ma non ha ancora capito nulla delle sei corde. |