D'Angelico New Yorker 1938: patrimonio dell'umanità
di paoloanessi [user #32554] - pubblicato il 11 dicembre 2012 ore 11:00
Fasce e fondo in acero fiammato, top in abete finissimo, manico in acero fiammato con filetto centrale in palissandro e acero e magnifico intarsio art deco alla paletta. La New Yorker del 1938, forse una delle prime venti prodotte, è un esempio dell'arte del maestro John D'angelico.
Verona, una domenica incredibile. In occasione dell'allestimento del museo della chitarra che si aprirà nel prossimo futuro, ho avuto l'onore di suonare delle chitarre su cui solo pochi fortunati possono mettere occhi e mani. Gli strumenti sono di proprietà di un appassionato che ha raccolto una fantastica collezione di esemplari primi e originali delle chitarre più belle della storia. Sceso dall'ascensore mi ritrovo catapultato in meno di cinque minuti in momento surreale, quasi quasi come essere dentro un sogno. Quando Massimo Racosta, il fortunato collezionista (che ringraziamo per la cortesia e la disponibilità a farci suonare i suoi tesori), mi chiede da cosa voglio cominciare, garbatamente e incredibilmente senza tremolii della voce scelgo lei, la D'Angelico New Yorker 1938, un giocattolo le cui quotazioni si avvicinano oggi pericolosamente ai 100mila dollari. A vista è imbarazzante, le finiture e il pregio di questo strumento non hanno eguali in tutto ciò che io abbia mai provato a vita, con il binding a sette strati a impreziosire ogni contorno e legni da restare senza fiato.
La suonabilità: poter trasmettere a parole la sensazione è difficile, ma se penso che la maggior parte di voi lettori guida una macchina, potrebbe essere come sedersi al volante di una fuori serie di altissima gamma, ma un'altra epoca, niente servo sterzo, cambio duro e sportivo, senza riscaldamento e finestrini elettrici. Impegnativa, ma proprio per questo una chitarra ancora più affascinante, che mi ha permesso di capire quanto sia cambiato il mondo a sei corde con l'evoluzione del pickup e relativa amplificazione. Suonata dolcemente confezione note dolci e garbate, mentre frullata di ritmica spara le medio alte come lo sferragliare di un treno a vapore in piena corsa. Doveva farsi sentire, ai suoi tempi. Dal volume prodotto, pensandola forse all'unisono con un'altra, capisco subito quanto possa essere dura farsi avanti nel sound di una big band magari di venti elementi. Arpeggiata chiede forza per creare volume. Stando leggeri con il tocco, nonostante le corde in bronzo, il suono risulta quasi smorzato. A plettro è a dir poco goduriosa: nonostante la fatica, il suono di ogni singola nota scintilla e guizza come una pioggia di stelle.
John D’Angelico nasce a inizio secolo scorso, nel 1905, nella Little Italy di Manhattan, sul Lower East Side, da una famiglia di immigrati napoletani che vivevano nella parte di Mott Street a nord di Canal Street, prima che la comunità cantonese della Chinatown confinante si espandesse, invadendo anche il quartiere italiano coi suoi mercati del pesce. Il padre di John era un sarto, come gran parte degli immigrati napoletani, ma lo zio Raffaele Ciani era un liutaio. Fu nella sua bottega al 57 di Kenmare Street che John cominciò a lavorare quando aveva solo nove anni. Fu lì che John imparò i primi rudimenti di liuteria, che avrebbe portato ai vertici dell'arte nel corso dei successivi cinquant'anni, grazie anche ai consigli di un altro liutaio di origine italiana, Mario Frosali che costruiva violini sulla Fifty Street. Quando John aveva 18 anni, Ciani morì e lui prese possesso della bottega e dell'attività. Nel 1932 si trasferì nella bottega al numero 40 di Kenmare Street, destinata a passare alla storia come il tempio dell'arch-top.
John D'Angelico era un genio. Per i primi anni faceva assistenza sulle prestigiose arch-top Gibson (all'epoca l'azienda di Kalamazoo era illuminata dal genio di Lloyd Loar), che diventavano sempre più imponenti per ottenere un volume sufficiente a alle big-band in voga all'epoca. Poi cominciò a costruire, affinando via via le tecniche e le strutture mutuate da Gibson e raggiungendo il vertice della qualità. Le sue chitarre diventarono famose, per la perfezione, il suono e l'estetica, in cui elementi art deco si abbinavano alle forme della classica arch-top, con un risultato straordinario. D'Angelico morì nel 1964, a soli 59 anni, dopo aver costruito circa duecento strumenti in cinque stili (A, B, Excel, New Yorker ed Excel Special), considerati oggi tra i più preziosi nella storia della chitarra. Dal 1952 prese un apprendista, Jimmy D'Aquisto, che completò le ultime chitarre non finite alla sua morte ed evolvette l'arte del maestro, portandola a vertici se possibile ancora più elevati.
La chitarra in oggetto, una New Yorker del 1938, quindi probabilmente una delle prime venti prodotte, è una meraviglia assoluta, un esempio dell'arte del maestro di New York. Fasce e fondo in acero fiammato, top in abete finissimo, bookmatched scavato, finitura sunburst. Manico in acero fiammato con filetto centrale in palissandro e acero. Segnatasti in madreperla e soprattutto, magnifico, intarsio art deco alla paletta, nella rara variante con fossetta centrale.
Il binding a sette strati lascia senza fiato e altrettanto l'hardware, con l'attaccacorde Schaffner e le meccaniche Grover Imperial, puro art deco da perdere il sonno. Anche il battipenna a nove strati è una gioia degli occhi. Non ci sono parole, davvero, davanti a un simile capolavoro. Questa chitarra è patrimonio dell'umanità. (alberto biraghi)