di LaPudva [user #33493] - pubblicato il 23 ottobre 2012 ore 07:30
Ne ha fatta di strada da quella prima chitarra disintegrata per errore alla Railway Tavern di Harrow nel 1964 («Fu un incidente, ma una volta rotta ho pensato che non sarei mai stato in grado di aggiustarla e così ho completato l’opera»). Alla fine ha accumulato tanti di quegli anni di vita e di musica da poterne fare un grandioso resoconto, uno dei più attesi dagli amanti del rock.
Ne ha fatta di strada da quella prima chitarra disintegrata per errore alla Railway Tavern di Harrow nel 1964 («Fu un incidente, ma una volta rotta ho pensato che non sarei mai stato in grado di aggiustarla e così ho completato l’opera»). Alla fine ha accumulato tanti di quegli anni di vita e di musica da poterne fare un grandioso resoconto, uno dei più attesi dagli amanti del rock.
L’11 ottobre scorso è stata pubblicata “Who I Am”, l’autobiografia di Pete Townshend, leggendario chitarrista e co-fondatore degli Who. Rimasta in cantiere per lungo tempo, se n’è avuta notizia per la prima volta quando all’inizio del 2003 venne indagato per aver scaricato delle foto da siti pedopornografici. Dichiarò alla stampa di aver semplicemente effettuato ricerche per la preparazione del suo libro, in cui avrebbe parlato dell’infanzia e delle molestie subite quando a sei anni venne mandato a vivere nella casa della nonna, che soffriva di turbe psichiche. Townshend è stato completamente scagionato ma questo, chissà perché, ha fatto molto meno scalpore delle accuse.
Certi colossi della musica ci sembrano così distanti e leggendari da portarci quasi a pensare che non abbiano avuto una vita reale. Leggendo il libro, invece, scopriamo che molte cose della vita quotidiana di questo ex giovane mod aiutano a comprendere quello che è diventato. La rabbia repressa per l’abbandono e gli abusi subiti, il fantasma di una guerra mondiale conclusasi da poco, la crisi dei missili di Cuba, la minaccia di una guerra nucleare erano pensieri che rimbalzavano ossessivamente nella testa di un teenager londinese con la musica nel DNA (il padre Cliff suonava il sax tenore negli Squadronaires, l’esuberante banda swing della RAF – “Erano l’equivalente dei Sex Pistols a quei tempi”, dice Pete - e sua madre Betty Dennis era una cantante professionista) che sentiva un irrefrenabile bisogno di dare forma agli impulsi artistici che lo laceravano e un “suono” (prima ancora che una voce) alla sua generazione. Lo stesso Townshend spiega che il celeberrimo rituale della distruzione della chitarra è da leggersi in questi termini: non era un gesto negativo, ma piuttosto qualcosa di catartico ed epico, una vera e liberatoria dichiarazione artistica.
Incredibile sentir raccontare direttamente da questo protagonista del rock e principale autore dei brani degli Who come si sia manifestata per la prima volta una canzone nella sua testa, o quanto sia difficile accettare il distacco da brani leggendari come “See Me, Feel Me” o “Pinball Wizard”, rendendosi conto che non appartengono più al loro autore ma al mondo e alla storia. Allo stesso modo apprendiamo direttamente dal performer che i suoi salti e quei movimenti bizzarri sul palco erano il frutto delle lezioni di balletto prese da piccolo e che lo storico “mulinello” col braccio destro è stato soffiato al collega Keith Richards (Pete spiega candidamente che, in occasione di un concerto degli Stones di cui gli Who erano i semisconosciuti supporter, Keith si stava riscaldando facendo roteare il braccio. Quando andò a chiedergli se lo avrebbe mai rifatto, si rese conto che Keef non sapeva di cosa stesse parlando e così lo fece suo).
Una figura tra le tante che popolano il racconto di Townshend si staglia in maniera toccante: è quella dell’adorato amico John Entwistle, compianto bassista degli Who incontrato sui banchi della Acton County Grammar School, proprio come Roger Daltrey, il futuro cantante della band. Entwistle fu il primo a riconoscere il suo talento e ad ammirarlo sinceramente, e fu sempre presente fino alla morte, nel 2002. Fu per salvarlo dalla rovina e non fargli perdere la casa che Townshend accettò di tornare a esibirsi con gli Who nei tardi anni ’90 e questo gli permise anche di recuperare il rapporto con Roger Daltrey, logorato da incessanti contrasti. E quale meraviglia incontrare tra le pagine del libro Keith Moon, musicista straordinario e folle amico che a ogni occasione amava far prendere un colpo agli amici con le sue bizzarrie, fino all’ultima, la precoce scomparsa per overdose a soli 32 anni nel 1978. Poi altri amici: il sesso, le droghe e l’alcol, ingredienti quasi imprescindibili nel percorso di una rockstar dell’era leggendaria, che, dice, lo hanno aiutato a mandar giù tutto quello che non gli piaceva del music biz.
Si sprecano gli incontri, gli aneddoti e i dietro le quinte in più di 540 (cinquecentoquaranta) pagine di racconto. Il volume è una fonte di informazioni preziosa per i fan degli Who, ma soprattutto per chi vuole entrare nel mondo di uno dei più grandi geni creativi della storia del rock. Chi lo conosce almeno un po’ sa bene che sarebbe stato impossibile entrare in quella dimensione se ad aprire la porta non fosse venuto lui stesso.
Un’ottima lettura nella speranza e nell’attesa che lo spettacolo di Quadrophenia sbarchi in Italia nel 2013.