Cerchiamo quindi di trovare dove sono andati a finire questi 2mila euro che, ne siamo certi, non sono tutti da imputare alla
diversa provenienza geografica. Questa ha sicuramente il suo effetto sul cash ma anche, solitamente, sulla qualità delle finiture. C’è da dire che, prima ancora di giungere agli strumenti in sé, il Panzer corazzato che la made in USA si ritrova al posto della custodia lascia ben sperare sulla differenza tra le due. La Sterling si presenta con una borsa morbida (e questo è un bene) realizzata con cura e imbottita al punto giusto, ma comunque un fuscello, a confronto con quella in ABS della Music Man.
Il peso dei due strumenti è diverso, la bilancia pende verso la Sterling, ma questo è da imputare alle diverse essenze scelte per il body. Passiamo però la mano sul manico ed è qui che tutto appare chiaro. Il legno, sulla carta, è lo stesso. La realtà vuole che quello made in USA si uno splendido pezzo di acero birds eye con finitura a olio. Il lucido è dato solo sulla paletta reverse, con uno stacco tanto netto quanto preciso, che fa sembrare il trasparente quasi un guanto. La vista è compiaciuta, il tatto ancora di più. L’aspetto opaco e ruvido trae in inganno, il profilo è delicato come la pelle di un bambino e permette una scorrevolezza estrema.
Quello della Luke invece, pur essendo realizzato con cura e precisione, ci riporta con i piedi per terra. La finitura matte è altrettanto comoda e confortevole, ma la sensazione non è nemmeno lontanamente paragonabile a quel piacevole sentore di legno americano. Ma non è finita qui. Alla goduria data dalla verniciatura a olio, va aggiunta quella regalata dai tasti jumbo tanto levigati e lisci da non essere minimamente percepiti sui bordi del manico, come se non ci fossero. Con questo non vogliamo dire che quelli della Sterling siano delle lame di rasoio, sono anch’essi rifiniti con cura, ma in ogni singolo fret della Morse c’è l’intera perizia di tutti i 22 tasti della Luke. Senza il termine di paragone, l’indonesiana se la sarebbe cavata senza il minimo problema, ma il confronto evidenzia la superiorità dell’americana.
Chiudiamo con le meccaniche. Entrambi gli strumenti montano un set di autobloccanti, molto simili nell’aspetto, quasi identiche, finché non le si ruota. Basta mezzo giro per accorgersi di quanto quelle montate sulla Y2D siano più morbide e allo stesso tempo solide. Quelle Sterling sembrano decisamente più grezze nell’azione e leggermente meno precise. Sembra si stia sfociando nelle pippe mentali, e in parte è anche vero. Basta dare qualche legnata alla leva del tremolo della Luke, fare un paio di dive bomb per capire che le chiavette sono solide quanto le altre, solo forse leggermente più economiche. Sono comunque autobloccanti e precise, in linea con il prezzo dello strumento.
In tutto questo, direte, non si è parlato minimamente del suono. La cosa è voluta, proprio perché il nostro obbiettivo era soffermarci sulle differenze tattili e visive, quelle che catturano la nostra attenzione quando camminiamo tra gli scaffali del nostro negozio di fiducia, prima che le nostre pupille esplodano nel leggere il cartellino del prezzo.
Possibile quindi che 2mila euro si nascondano solo in queste differenze, magari piccole, ma fondamentali, quasi certo ci verrebbe da dire. A queste vanno poi aggiunte le peculiarità timbriche dovute alla migliore selezione di legni e materiali, ma di questo ci occuperemo singolarmente nelle due recensioni.
Non siamo una rivista scientifica e non esistono veri esperimenti per stabilire con precisione se valga la pena spendere 2mila euro in più per uno strumento made in USA rispetto a uno made in Indonesia. Per il momento quattro sensi su cinque ci stanno spingendo tra le braccia di Steve Morse, mentre il nostro portafogli continua a piangere, pieno com’è di scontrini e monetine.