Il compositore Augusto Gorgia, uomo invidiosissimo, già al colmo della fama e dell’età, una sera, passeggiando da solo nel quartiere, udì un suono di pianoforte uscire da un grande casamento.
Augusto Gorgia si fermò. Era una musica moderna però diversa dal tipo che faceva lui o da quella che facevano i colleghi; di simile non ne aveva mai sentita. Non si poteva neppur dire, lì per lì, se fosse seria o leggera; pur ricordando certe canzoni popolari per una sua trivialità, conteneva un amaro sprezzo, e sembrava quasi che scherzasse benché nel fondo si avvertisse una convinzione appassionata. Ma soprattutto Gorgia fu colpito dal linguaggio, il quale era libero dalle vecchie leggi armoniche, spesso stridulo e arrogante, e nello stesso tempo riusciva a una massima evidenza. La caratterizzava inoltre un bello slancio, giovanile levità, senza alcuna traccia di fatica. Ma ben presto il piano tacque e inutilmente Gorgia continuò a passeggiare nella via aspettando che ricominciasse.
“Chissà, sarà roba americana” pensava “laggiù, in fatto di musica, combinano i più infernali intrugli.” E si avviò per rincasare. Tuttavia gli rimase quella sera, e tutto il giorno dopo, un fastidio dell’animo; come quando, cacciando per il bosco, uno batte contro una roccia o un tronco e nella furia non ci bada ma poi, di notte, il punto duole e non si riesce a ricordare dove e come. Ci volle più di una settimana perché la cicatrice scomparisse.
Qualche tempo dopo, rincasato verso le sei del pomeriggio, aperta che ebbe la porta di casa, Gorgia udì la voce della radio accesa nel salotto: e d’un subito, con prontezza dell’esperto riconobbe il suono; questa volta era musica d’orchestra e non più di pianoforte solo, eppure identica al pezzo udito quella sera, lo stesso accento atletico e superbo, e sempre il bizzarro periodare, con l’autorità quasi oltraggiosa dell’idea che pareva il galoppo di un cavallo estremamente ansioso di arrivare.
Gorgia non fece in tempo a chiudere la porta che la musica cessò. E dal salotto, con precipitazione insolita, si avvicinarono i passi della moglie. «Ciao caro» disse «non sapevo che tu tornassi così presto». Ma perché aveva quella faccia imbarazzata? Aveva qualcosa da nascondere?
«Che succede?» lui domandò perplesso.
«Come che succede? E che cosa dovrebbe succedere?» Maria si era subito ripresa.
«Non so. Mi hai salutato in certo modo…Ma dimmi un po’ che cosa stava trasmettendo la radio?»
«Ah, se credi che ci stessi attenta!»
«E allora perché l’hai spenta appena sono entrato?»
«Mi fai un’inchiesta?» fece lei ridendo. «Se vuoi proprio sapere, l’ho spenta mentre ti venivo incontro. Ero di là nella mia camera, e l’avevo dimenticata accesa.»
«Trasmettevano una musica» disse Gorgia pensieroso «una musica curiosa…» e si avviò verso il salotto.
«Benedetto uomo, non ne hai proprio mai abbastanza di musica…da mattina a sera musica…non sei mai sazio. E lasciala un po’ stare quella radio!» disse vedendo che egli stava per riaccenderla.
Allora lui si volse ad osservarla: sembrava inquieta, quasi temesse qualche cosa. Con dispetto girò l’interruttore, il quadrante si illuminò, dall’apparecchio uscì il solito ronzio, poi una voce: «...mo trasmesso un programma di musica da camera. Col prossimo concerto offerto dalla ditta Tremel…». «Contento adesso?» fece Maria che pareva sollevata.
La sera stessa, uscendo dopo pranzo con l’amico Giacomelli, Gorgia, comprato il giornale della radio, vi cercò il programma di quel giorno. «Ore 16,45, c’era scritto, concerto di musica da camera diretto dal maestro Sergio Anfossi; composizioni di Hindemith, Kunz, Meissen, Ribbenz, Rossi e Stravinski.» No, la musica ch’egli aveva udito di Stravinski non era di sicuro. I nomi, nel giornale erano in ordine alfabetico, evidentemente la successione dei pezzi era stata cambiata nel concerto. E neppure era la musica di Hindemith, né di Meissen, Gorgia li conosceva troppo bene. Ribbenz, allora? No: Max Ribbenz, suo antico compagno di Conservatorio, si era cimentato, dieci anni prima, in una grande cantata polifonica, lavoro onesto ma scolastico; e poi aveva smesso di comporre; dopo tanto silenzio, solo recentemente si era rifatto vivo, piazzando una opera al Teatro di Stato; proprio in quei giorni doveva andare in scena; ma da quel lontano precedente si poteva prevedere cosa fosse. Dunque neppure Ribbenz. Restavano Kunz e Rossi. Ma chi erano? Gorgia non li aveva mai sentiti nominare.
«Che cosa cerchi?» domandò Giacomelli vedendolo così assorbito. «Niente. Oggi ho sentito per radio una musica. Mi piacerebbe sapere di chi è. Una musica curiosa. Ma qui non si capisce.» «Che specie di musica?» «Non saprei dire ecco, una musica maleducatissima, direi.» «Va là, va là non pensarci» scherzò Giacomelli che lo sapeva suscettibile «lo sai meglio di me, il musicista che ti spianterà non è ancor nato.»
«Anzi, anzi» disse Gorgia indovinando l'ironia «ne sarei felice. Io speravo che qualcuno, finalmente... (un pensiero fastidioso gli passò)... A proposito, è domani la prova dell'opera di Ribbenz?» Giacomelli non rispose subito. «No, no» disse, indifferente «devono averla rimandata...» «E tu ci vai?» «Eh, no, sai» fece Giacomelli «è una cosa superiore alle mie forze.» A questa frase, Gorgia tornò di buon umore: «Povero Ribbenz» esclamò «povero vecchio Ribbenz, sono proprio contento per lui. Almeno questa soddisfazione... E dài e dài...!».
La sera dopo, in casa, Gorgia tentava svogliatamente il piano, quando a un tratto gli parve di udire, di là dell'uscio chiuso, un parlottio. Insospettito si avvicinò a origliare.
Nel salotto adiacente, sua moglie e Giacomelli stavano confabulando a bassa voce. Lui diceva: «Ma lo verrà pure a conoscere, presto o tardi». «Quanto più tardi, sarà meglio» diceva Maria. «Lui ancora non deve sospettare niente» «Meglio così... Ma i giornali? Non si può mica impedirgli di leggere i giornali.» Qui Gorgia aprì d'impeto la porta.
Come ladri presi in fallo, i due si levarono di scatto. Erano pallidi. «Be'» chiese Gorgia. «Chi è che non deve leggere i giornali?» «Ma, ma...» disse Giacomelli «raccontavo di un mio cugino arrestato per appropriazione indebita. Suo padre, che è mio zio, non ne sa niente.»
Gorgia diede un sospiro. Meno male. Ebbe anzi un senso di vergogna per quell'irruzione un po' indiscreta. A forza di sospetti finiva per avvelenarsi l'esistenza. Ma in seguito, mentre Giacomelli raccontava, il torbido malessere riprese: era poi vera la storia del cugino? Non poteva Giacomelli averla inventata lì per lì? Perché altrimenti quel parlottare sottovoce?
Stava all'erta, non diversamente dal malato a cui i medici e i parenti nascondono la sentenza irrevocabile; egli fiuta intorno la menzogna, ma gli altri sono assai più astuti, sviano le sue curiosità, e se non riescono a tranquillizzarlo, gli risparmiano l'orrenda verità.
Anche fuori di casa egli credeva di sorprendere sintomi sospetti: certi sguardi ambigui di colleghi, o l'ammutolire che facevano al suo avvicinarsi, o l'imbarazzo nel discorrere con lui di persone abitualmente loquacissime. Gorgia si controllava tuttavia, domandandosi se questa diffidenza non fosse un segno di nevrastenia; invecchiando, certi uomini vedono nemici dappertutto. E che aveva da temere poi? Era famoso, rispettato, finanziariamente ben provvisto. Teatri e società di concerti si disputavano le sue composizioni. Di salute non poteva stare meglio. Non aveva mai fatto del male. E allora? Che pericolo poteva minacciarlo? L’orgasmo lo riassalì il giorno successivo, dopo pranzo. Erano già quasi le dieci. Nello scorrere il giornale, vide che la nuova opera di Ribbenz andava in scena quella sera. Ma come? Giacomelli non gli aveva detto che la prova era stata rimandata? E come mai nessuno lo aveva avvertito sollecitando il suo intervento? E perché la direzione del teatro non gli aveva mandato le poltrone come al solito?
«Maria Maria» chiamò col batticuore. «Tu sapevi che la prima di Ribbenz è stasera?»
Maria accorse con affanno. «Io, io? Sì, ma io credevo...»
«Cosa credevi?... E le poltrone? Possibile che non mi abbiano mandato le poltrone?»
«Sì, sì. Non l'hai vista la busta? Te l’avevo messa sul comò.»
«E non mi hai detto niente?»
«Credevo che non ti interessasse… Dicevi che non ci saresti mai andato... Non mi beccano, dicevi... E poi mi è passata di mente, ti confesso...»
Gorgia era fuori di sé. «Io non capisco… io non capisco» ripeteva «e sono già le dieci e cinque... ormai non si fa più in tempo... quell'idiota d'un Giacomelli... (il sospetto che da qualche tempo lo tormentava ora si era localizzato: nell'opera di Ribbenz, per un motivo che egli non riusciva ad immaginare, doveva esserci qualcosa di nefasto. Guardò ancora il giornale, quasi non si capacitasse). Ah, ma la trasmettono per radio... voglio propri cavarmi questo gusto.»
Maria fece una voce dolente: «Augusto, mi dispiace, ma la radio non funziona...».
«Non funziona? E da quando non funziona?»
«Da questo pomeriggio. Alle cinque ho fatto per accenderla, c'è stato dentro un clic e non si è sentito più niente, deve esserci una valvola bruciata.»
«Proprio stasera? Ma vi siete messi tutti d'accordo per…»
«Per che cosa messi d'accordo?» Maria quasi piangeva. «Che colpa ce ne ho io?»
«Bene, io esco. Una radio da qualche parte ci sarà...»
«No. Augusto... piove... e tu sei raffreddato... è già tardi, avrai tutto il tempo di sentirla quella maledetta opera.» Ma Gorgia, preso l'ombrello, era già fuori.
Andò vagando finché lo attrassero le luci bianche di un caffè. Qui c’era poca gente. Un gruppetto si vedeva però raccolto in fondo, nella saletta per il tè. E di laggiù veniva la musica. Strano, pensò Gorgia. Tanto interesse per la radio si notava solo di domenica, quando trasmettevano partite. Poi il dubbio: possibile che ascoltassero l'opera di Ribbenz? Ma era assurdo. Tra la gente che immobile ascoltava c'erano tipi al di là di ogni sospetto: due giovani in maglione, per esempio, una ragazza di facili costumi, un cameriere in giacchetta bianca.
Gorgia fu tratto da un richiamo oscuro, come se già da molti giorni, anzi da mesi ed anni egli già avesse saputo di dover trovarsi là, in quel locale e non un altro, a quell'ora destinata. E via via che la musica si rivelava nel ritmo e nelle note, l'uomo provò una stretta al cuore.
Era musica nuovissima per lui, e nello stesso tempo scavata nel suo cervello come un'ulcera. Era la strana musica già udita per la via, e poi a casa quella sera. Ma adesso era ancora più libera e orgogliosa, e più potente di volgarità selvaggia. Non resistevano neanche gli uomini ignoranti, i meccanici, le donnette, i camerieri. Schiavi e sconfitti, restavano là a bocca spalancata. Il genio! E questo genio si chiamava Ribbenz; e gli amici e la moglie avevano tentato di tutto affinché Gorgia non ne sapesse niente, per la pietà che avevano di lui. Era il genio che l'umanità aspettava da almeno mezzo secolo, e che non era lui, Gorgia, bensì un altro della sua stessa età, finora ignoto e disprezzato. Come gli ripugnava quella musica, che bello sarebbe stato smascherarla, dimostrarla falsa, coprirla di risate e di vergogna. Essa invece fendeva i flutti del silenzio come una corazzata vittoriosa; e presto avrebbe conquistato il mondo.
Un cameriere lo prese per un braccio: «Signore, scusi, non si sente bene?». Gorgia infatti barcollava.
«No, no, grazie.» E senza bere nulla se ne uscì, sotto la pioggia, disperato. «Madonna Santa!» mormorava tra sé, ben sapendo che per lui ogni gioia era finita. Né poteva, come liberazione, offrire a Dio questo suo dolore; perché a questi dolori Dio si indigna.
(Dino Buzzati - Sessanta racconti, n°32)