di LaPudva [user #33493] - pubblicato il 11 febbraio 2016 ore 07:30
L’ultima tra le morti celebri che - a ritmo spaventoso - stanno decimando l’alto music business, nel nostro paese ha avuto una risonanza minore rispetto a quelle che l’hanno preceduta. Se per certi versi questo si può spiegare con la lunga assenza dalle scene dell’artista e, tutto sommato, con la scarsa influenza della sua produzione sulla musica nostrana, è inaccettabile che i media abbiano dato una copertura tanto lacunosa alla scomparsa di un autentico genio della musica leggera del secolo scorso.
Se il termine "genio" viene usato tanto spesso da risultare inflazionato, nel caso di Maurice White (musicista, cantautore, produttore e co-fondatore degli Earth Wind & Fire) pare assolutamente appropriato, avendo creato con la sua band un universo artistico parallelo che in quattro decenni di attività ha radunato generazioni di accoliti in tutto il mondo. Oltre 90 milioni di dischi venduti, 17 nomination ai Grammy e sei vittorie, cinque American Music Awards, induction alla Rock and Roll Hall of Fame, alla Vocal Group Hall of Fame, alla Songwriters Hall of Fame, alla NAACP Image Award Hall of Fame, alla Hollywood RockWalk, inviti a suonare alla Casa Bianca al cospetto di Clinton e di Obama (oltre che alla corte di regnanti in altri paesi) e una quantità notevole di alti riconoscimenti, possono dare soltanto una vaga idea del valore di ciò che questa band ha prodotto sotto la guida di Maurice White.
Accordo vuole rendere omaggio a un artista la cui vicenda è forse poco nota e che meriterebbe di essere celebrato a prescindere dalle preferenze di genere.
Nato nel 1941 a Memphis, Tennessee, Maurice White crebbe in una famiglia poverissima. Quando la madre si spostò a Chicago per risposarsi e costruirsi una nuova vita, Maurice venne cresciuto dalla nonna e ricevette il suo “battesimo musicale” cantando nella chiesa battista che frequentavano. La cosa che lo appassionava maggiormente, tuttavia, era la batteria, che sognava di suonare ogni volta che vedeva la banda per le strade di Memphis. Alle superiori strinse amicizia con Booker T (in seguito musicista per la Stax Records) ed entrò nella banda della scuola.
Frequentando la nuova famiglia della madre, “Reese” (come lo chiamavano i suoi cari) strinse un rapporto molto forte con i fratellastri Verdine (di dieci anni più giovane, avuto dalla madre col nuovo marito, il dottor Verdine Adams Sr.) e Freddie, con cui condivideva la grandissima passione per la musica e un rapporto sinergico che risulterà essere un fattore chiave nella formazione e nell’evoluzione degli EWF in seguito. Nel ’60, terminate le superiori, si trasferì da loro in pianta stabile e cominciò quasi subito a lavorare come musicista. In breve tempo divenne uno dei turnisti di punta della Chess Records, etichetta nata nel ’50 e apprezzata per le sue scelte innovative in ambito blues, rock’n’roll, jazz e r&b. White suonò la batteria per molti artisti della Chess: da Etta James e Betty Everett alle Dells, da Buddy Guy a Muddy Waters, anche in hit commerciali del momento, come “Rescue Me” di Fontella Bass e le versioni pop di “Summertime” e “My Guy” di Billy Stewart. Bravo musicista, oltre a soddisfare artisti e produttori, dimostrò subito una certa “intelligenza professionale” e imparò rapidamente i fondamenti della produzione musicale e i capisaldi del music business in generale. Già a quei tempi, come ricordano i suoi collaboratori, White aveva il carisma, la sicurezza, l’aura che solo gente come Miles Davis aveva.
Settimanalmente portava a casa numerosi vinili che saranno un prezioso elemento formativo per il fratello minore Verdine, assieme alle visite in studio che gli concedeva di fare durante le sue sessioni di registrazione.
Nel ’62, con l’amico sassofonista Don Myrick e l’allora pianista Jack DeJohnette (che diventerà un grande batterista) formò i Jazzmen, prima di entrare nel Ramsey Lewis Trio nel ’66: col trio del popolare pianista jazz suonò tre anni e realizzò ben nove album (in uno di questi suonò per la prima volta la kalimba, antico strumento a percussione africano che diventerà centrale nel suo universo artistico e che darà il nome a una sua etichetta). Durante l’intensissimo periodo con Lewis, White guadagnò immensamente in termini di esperienza professionale: lavorare fianco a fianco di grandi del jazz, esperire il successo in giovane età e in un momento di grandi sperimentazioni gli diede modo di concettualizzare il suo personalissimo universo artistico, gettando le basi per progetti futuri. Alla fine del ’69 maturò la decisione di lasciare il trio e, con i tastieristi Wade Flemons e Don Whitehead, si dedicò alla composizione di musica per spot pubblicitari, ottenendo persino un contratto con la Capitol col nome Salty Peppers, ma il suo sogno era quello di ampliare il gruppo e creare un ensemble di otto elementi che potessero suonare qualcosa di innovativo, un crossover tra diversi generi musicali. Per farlo, coinvolse anche il fratello Verdine (che aveva preso già da tempo a studiare seriamente il basso), la cantante Sherry Scott e il percussionista Yackov Ben Israel. Decise di spostarsi in California col fratello Verdine (che sceglierà di cambiare il suo cognome da Adams in White), dove reclutò una sezione fiati di tre elementi e il chitarrista Michael McBeal. 10 musicisti per una formazione che White chiamerà Earth Wind & Fire, concetti mutuati dallo zodiaco (il suo segno, il Sagittario, è un segno di fuoco influenzato dagli elementi della terra e dell’aria).
Dopo due primi dischi con la Warner Bros (l’album omonimo, con cui inaugurano il decennio, e “The Need of Love”) e un contributo alla colonna sonora del film indipendente “Sweet Sweetback’s Baadassss Song di Melvin Van Peebles, la band cambiò formazione e accolse il giovane e portentoso cantante Phil Bailey, oltre alla vocalist Jessica Cleaves, il tastierista Larry Dunn, il batterista Ralph Johnson, Roland Bautista alla chitarra (poi sostituito da Al McKay) e Ronnie Laws (a cui subentrerà Andrew Woolfolk) ai fiati.
A questo punto, il gruppo era pronto per dare vita al progetto visionario di Maurice White: diversi da qualsiasi altro nome di spicco della musica black del momento (Parliament-Funkadelic e George Clinton, Bootsie Collins e altri funkster di matrice browniana), gli EWF erano un assortimento di generi e personalità musicali unico al mondo, con un blend di fiati bop su ritmi afro-cubani e ricchi arrangiamenti vocali ispirati alle armonie di Sérgio Mendes e dei Brasil ’66. Ma la sua visione implicava qualcosa di molto più ampio: “the Concept”, come lo chiamava White, era un approccio filosofico all’esistenza per attuare il quale gli EWF avrebbero prodotto musica con un richiamo universale, allo scopo di portare la gente a un livello più alto di coscienza, una sorta di balsamo per i mali della società. Per realizzare questa riscoperta personale, gli EWF intrapresero un percorso olistico, curando il corpo come fosse un tempio sacro, con molta attenzione all’alimentazione e all’esercizio fisico. Progetto ambizioso, di cui Maurice White era ideatore, direttore e catalizzatore.
Nel ’72 passarono alla Columbia ed entro la fine del decennio pubblicarono sette album, con un’evoluzione stilistica pazzesca, dettata anche dalla collaborazione di White con Charles Stepney, musicista, produttore, fonico, arrangiatore, genio che sarà il George Martin degli EWF, nonché l’unico che si potesse prendere il lusso di rimproverare White (temutissimo dagli altri membri della band)! Dopo la prima vera hit - “Mighty Mighty” dall’album “Opern Your Eyes” del ’74 - il loro sound si evolse, sacrificando gli originari elementi jazzy per privilegiare dosi copiose di R&B e groove, e con l’album “That’s the Way of the World” White cominciò davvero a concretizzare il suo universo: dopo l’entrata del fratello Freddie (già batterista di Donny Hathaway) come secondo batterista e dei Phoenix Horns ai fiati, decise di ideare uno spettacolo live imponente, stravagante e sfarzoso, con l’ausilio di registi, coreografi e costumisti di prim’ordine. Progetto costosissimo che, però, decreterà il loro status di eminente live band.
Con il succedersi incalzante di album di successo come “Spirit” (del ’76, con il singolo “Getaway”), “All’N’All” (’77, con “Serpentine Fire” e “Fantasy”) e “I Am” (’79, con “In the Stone”, “After the Love Has Gone”, capolavoro scritto da Foster, Graydon e Champlin e la dance hit “Boogie Wonderland”), e dei i singoli “Got to Get You Into My Life” (cover dei Beatles realizzata per la colonna sonora del film Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band di Michael Schultz) e “September”, gli EWF diventarono un autentico colosso del music business e Maurice White, il leader indiscusso della band, una leggenda.
Ma con il grande successo, arrivarono le tensioni. Senza interpellare la band, Maurice White fondò la ARC Records e creò il suo quartier generale a Los Angeles, in un edificio chiamato “The Complex”, con uffici, studio di registrazione e sale prova. La band (che venne subito passata alla neo-etichetta) non aveva quote nella società e non venne neanche invitata al party inaugurale, cosa che generò i primi sospetti sulla gestione degli affari da parte di White. Il divario economico tra White e gli altri membri della band era, in effetti, immenso e ad alcuni non parve giustificato dal suo ruolo di leader, tra questi Al McKay, che venne allontanato dalla band. La band poteva contare su una sinergia quasi magica, ma non si poteva dire vivesse in democrazia. White si stava rivelando uno dei più geniali despoti del music biz.
Gli EWF avevano trovato negli anni ’70 il periodo ideale per dare sfogo alla propria visione artistica, ma negli anni ’80 le cose cambiarono in fretta. Nel giro di tre anni la band realizzò quattro dischi (“Faces”, “Raise!”, “Powerlight” ed “Electric Universe”), con produzioni sovraccariche, collaborazioni notevoli, qualche brano davvero interessante ma con idee via via sempre meno interessanti fino a giungere a un terribile quanto inaspettato punto di arresto nell’83: Maurice White convocò un “meeting” al Complex durante il quale, senza troppe cerimonie, comunicò alla band che la Columbia non era interessata a un nuovo disco degli EWF ma a uno solistico di White. La band era ufficialmente sciolta e la notizia giunse come un trauma per tutti i musicisti, alcuni dei quali ebbero un autentico crollo emotivo ed economico.
Maurice White, forte del suo successo planetario con gli EWF e come produttore di artisti del calibro di Deniece Williams, Emotions, Barbra Streisand e Neil Diamond, era ormai un’istituzione e si sentiva pronto a intraprendere una carriera solista di successo. Ma le cose andarono diversamente: il suo disco solista omonimo dell’85 si rivelò un flop, mentre il secondo disco di Phil Bailey, prodotto da Phil Collins, fu un successo strepitoso e i singoli come “Walking on the Chinese Wall” e “ Easy Lover”(duetto con Collins) divennero hit in tutto il mondo.
Per molto tempo, quasi nessuno della band (incluso il fratello Verdine) ebbe rapporti con Maurice White, ma su suggerimento del vice-presidente della Columbia, Larkin Arnold, si incontrarono dopo anni e nel 1987 ebbe luogo la tanto attesa reunion. Il diverso status di Bailey ora gli permise di chiedere e ottenere che gli accordi economici fossero diversi rispetto a prima. Ma “Touch the World” non fu un buon comeback album e i concerti, svolti nelle giganti venues a cui la band era abituata negli anni ’70, radunarono pochi fans. White, inoltre, sembrava notevolmente fuori forma. L’album “Heritage” (1990) cercò di adeguarsi ai trend musicali del momento ma risultò essere l’album più deludente della band. Nel ’92, infine, un verdetto terribile: a Maurice White venne diagnosticato il Parkinson. Un colpo tremendo per un musicista che era anche un grande performer, e che lo costrinse a ritirarsi definitivamente dalle scene nel ’94, dopo l’uscita di un altro album ricco di collaborazioni ma di fatto fallimentare come “Millenium” (’93). Rimarrà, tuttavia, a lungo la guida della band e collaborerà alla realizzazione degli album fino al 2005.
La band tornerà a esibirsi senza White già dal ’96 sotto la leadership di Bailey, ottenendo un grandissimo successo di pubblico ed è ancora attiva, anche discograficamente.
Dedito al suo lavoro con un perfezionismo maniacale, White ha creato un nuovo paradigma del fare musica. Sono leggendari gli aneddoti delle sessioni di composizione e registrazione degli album degli EWF (storica, per esempio, l’occasione in cui, nella sua casa di Carmel, nel giro di 12 ore scrisse otto brani con David Foster, la maggior parte dei quali inseriti nell’album “I Am”). Dispotico per certi versi, ma indiscusso mentore e guida per gli EWF, li aveva selezionati con cura e portati professionalmente a un altro livello, come un maestro. White era un instancabile ricercatore di nuovi territori sonori da rendere con arrangiamenti ricchissimi, ha fuso misticismo e musica leggera come nessuno prima aveva osato fare, con un’apertura a suggestioni provenienti dalle tradizioni più disparate (la copertina di “All’N’All” è un esempio, con un’ambientazione egizia mista a elementi futuristi, al suo interno presenta dodici simboli tra cui la stella di David, una croce, una menorah, un Buddah, il caduceo, l’occhio di Horus e l’ankh, un’iconografia che rispecchia l’universalismo di White).
All’inizio del loro percorso insieme, White era solito raccomandare a Phil Bailey di essere sempre «strong about the Concept», ovvero convinto di e fedele a quell’intento primario di fare musica che cambiasse il mondo. Che abbia agito sempre coerentemente al concetto oppure no, White rimane uno dei più grandi innovatori della musica leggera dell’ultimo cinquantennio e il suo contributo è incalcolabile, come testimoniano i più disparati artisti che piangono la sua dipartita, avvenuta nel sonno lo scorso quattro febbraio, e che lo indicano come fonte di ispirazione.