"Suonare la chitarra" è una banalissima frase che già di suo evoca storie e leggende di cui si potrebbero riempire intere biblioteche alessandrine.
Ma, probabilmente, queste storie e le stesse leggende sono state già narrate e fanno parte dell'aneddotica musicale globale: Hendrix, Clapton, Blackmore, Beck, Page, Vaughan, Gilmour, Knopfler solo per citare i primi che mi vengono in mente, sono nomi di cui sappiamo e di cui abbiamo ascoltato (chi più, chi meno) praticamente tutto.
Ci sono storie, però, che nessuno ha mai raccontato ma che possono dirci ancora molto sull'universo a 6 corde a noi molto caro.
Vi racconto, ad esempio, la vicenda di un chitarrista nato quarantacinque primavere fa, proprio mentre tali Beatles sconvolgevano il music business rivoltando come un calzino il modo di fare ed ascoltare la musica. Costui, a diciotto anni s'inventa di imparare a strimpellare una chitarra, per non essere da meno degli amici suoi, visti i lusinghieri risultati che ottenevano, non necessariamente musicali, con le ragazze della compagnia. Passò quindi qualche mese in totale apnea didattico-musicale, portandosi lo strumento perfino in luoghi "fisiologicamente preposti" per non perdere nemmeno un secondo di vita senza essersi esercitato in scale e accordi assortiti.
Furono momenti esaltanti (fuori dalle toilette, ovviamente) poiché i risultati non tardarono a venire. Ma come in tutte le storie, le cose cambiano. Niente di brutto s'intende, ma una di quelle cose che ti cambiano la vita: una fidanzata che di lì a sette anni diventa una moglie e dopo altri tre la madre del primogenito, quindi dopo altri tre del secondo.
E la chitarra? Di fianco all'armadio appoggiata al piccolo Marshall da 15 watt, senza custodia e ogni tanto rispolverata da qualche arrancante riff metal (l'antica passione) abbozzato a stento, visto che gli anni di digiuno erano diventati ormai venti!
Ma si sa che le passioni, quelle vere, anche se rimangono sopite accanto ad un armadio, non muoiono mai.
Una particolare congiunzione astrale porta quel chitarrista a conoscere un nuovo collega di lavoro che qualche anno prima suonava la batteria; poi una parola scivola col vecchio amico, clarinettista professionista, che gli presenta un allievo della sua scuola di musica che studia il basso... manca qualcuno? Altroché! Ecco allora l'altro comune amico, chitarrista acustico, con cui si animavano le messe in gioventù. Insomma, nel volgere di qualche settimana s'era formata una band, anzi una mezza orchestra: due chitarre, basso, batteria, sassofono, tastiere, percussioni e due voci, maschile e femminile. Età media del gruppo sulla quarantina. Gli ingredienti erano perfetti per creare la magica alchimia: passione, voglia di divertirsi suonando e suonare divertendosi, nessun grillo per la testa. E pazienza se nel repertorio non ci siano Back in black, Paranoid, Sweet child of mine o Enter sandman. Anche Sade, Simply Red, Van Morrison e Pino Daniele fanno musica, no?
Dalla sala prove ne escono ogni settimana sette tra padri e madri di famiglia contenti e divertiti da tre ore di cover assortite e suonate neanche -apparentemente- poi così male.
Ma sappiamo bene tutti che il suonare fine a se stesso alla lunga provoca la scintilla fatidica: "E se provassimo a organizzarci un'uscita in pubblico?" L'ideale è la classica festa tra amici. E' ideale proprio perché l'assordante presenza di una trentina tra figli e figlie urlanti fa passare in secondo piano la performance un po' tra il timido e l'incerto (una vera catastrofe, a dire il vero...).
No, non poteva finire così. E allora sotto con le new entry in scaletta, tutta roba degli anni di gioventù, sia chiaro, ma tutta roba buona. Vintage, ma buona. D'altronde, sono vintage anche i membri della band: gente nata tra i 60 e i 70. Vi ricordate cos'era la musica, all'epoca?
Dopo nemmeno un anno dalla "sfortunata" performance alla festicciola in famiglia, ecco il botto. C'è una festa in piazza. Ci mettono a disposizione un palco (forse, meglio, una pedana). Affittano un service professionale. Chiamano tre gruppi a riempire di baccano il pomeriggio della domenica. Ci si prepara bene. Si raddoppiano gli sforzi e le prove settimanali.
E arriva la domenica.
La giornata è strepitosa, fa caldo ma tira un venticello che avercelo tutta l'estate! Dopo il sound check sotto il sole comincia il primo gruppo, un po' male assortito: un batterista esperto, un bassista che avrebbe dovuto esserlo, una chitarrista giovane e piccola obnubilata dalla mole fisica e sonora di una Ibanez Jem Steve Vai Signature e una cantante alle prese con un repertorio rock oltre le proprie possibilità (capacità?) vocali.
Poi sotto col secondo... repertorio analogo al nostro, ma groove dimenticato in sala prove o, addirittura mai preso in considerazione. I pezzi lisci e puliti ma già dimenticati dopo due note. Praticamente il momento giusto per mangiarci il gelato, o farsi un giro al mercato.
Tocca a noi.
La rilassatezza dell'attesa, una volta saliti gli scalini, resta giù, nella custodia della Fender. E le gambe tremano talmente da poterne fare un vibrato che neanche Satriani... ma il semaforo verde è acceso, i motori sono a pieni giri, le valvole già red hot e i power chords di "One way or another" ribollono ormai nell'anfiteatro. La gente salta. Le bambine sotto il palco accennano a coreografie improvvisate ma d'effetto. E così per tutti i brevissimi 45 minuti di concerto. Solo un maledetto e improvviso temporale maggiolino durato si e no trenta secondi, ci rovina il finale con "Sweet home Chicago" e fa scappare tutti, compresi i ragazzi del service (è comprensibile: far fare un bagnetto a un mixer Soundcraft da 48 canali non è bello).
Ma il solco è tracciato.
I commenti lusinghieri ed entusiasti della gente, anche a distanza di giorni, ci dimostrano che la passione, se coltivata in maniera sana, può portare a risultati nel loro piccolo straordinari.
Dimostrano che suonare buona musica non è prerogativa solo dei "grandi" o dei professionisti. Che al mondo non ci sono solo i Woodstock, i Live Aid o gli Heineken Jammin' Festival.
La musica può essere fatta anche alle sagre di paese e, se la gente vi salta e balla al ritmo dei tuoi pezzi, vuol dire che fare musica è la forma più democratica di divertimento, per chi la fa, appassionato o professionista, e per chi l'ascolta, spettatore consapevole e pagante o avventore casuale.
Ma permettetemi di aggiungere che arrivare a 45 anni a esordire in un palco all'aperto, senza più (o mai) illusioni di andare al di là di una banalissima gig in piazza, con tuo figlio dodicenne inchiodato e semi-adorante al bordo del palco, dà delle soddisfazioni che neanche Vasco di fronte ai suoi abituali 20.000 fan probabilmente può vantare.
La musica non è solo business, è anche questo.
O, forse, soprattutto questo.